11 dic 2008

Le vere parole dell'Osservatore della Santa Sede all'ONU sui gay (articolo di A. Tornielli)

02.12.2008 - Roma - L’ennesima tempesta in un bicchier d’acqua ha fatto passare ieri il Vaticano come un regime autoritario e fondamentalista che vuole la criminalizzazione dell’omosessualità. A scatenarla, con parole peraltro inequivocabili che non si prestano ad ambigue interpretazioni, è stata l’intervista che l’agenzia cattolica francese I.Media ha fatto all’arcivescovo Celestino Migliore, Osservatore permanente della Santa sede presso le Nazioni Unite, nella quale il diplomatico vaticano ha preso le distanze dal progetto di dichiarazione che la Francia, a nome dell’Unione europea, ha intenzione di presentare all’Onu per chiedere il pari trattamento di ogni orientamento sessuale e, fra l’altro, la depenalizzazione dell’omosessualità nei Paesi di tutto il mondo. «Tutto ciò che va in favore del rispetto e della tutela delle persone fa parte del nostro patrimonio umano e spirituale», ha risposto monsignor Migliore, citando il Catechismo della Chiesa cattolica «che dice, e non da oggi, che nei confronti delle persone omosessuali si deve evitare ogni marchio di ingiusta discriminazione». «Ma qui - ha aggiunto - la questione è un’altra. Con una dichiarazione di valore politico, sottoscritta da un gruppo di Paesi, si chiede agli Stati e ai meccanismi internazionali di attuazione e controllo dei diritti umani di aggiungere nuove categorie protette dalla discriminazione, senza tener conto che, se adottate, esse creeranno nuove e implacabili discriminazioni. Per esempio, gli Stati che non riconoscono l’unione tra persone dello stesso sesso come “matrimonio” verranno messi alla gogna e fatti oggetto di pressioni».

Queste parole sono state prese a pretesto per far credere che la Santa sede sia favorevole alla galera se non addirittura alla pena di morte per le persone omosessuali, come previsto in alcuni Paesi fondamentalisti. Le cose, ovviamente, non stanno affatto così. In Segreteria di Stato c’è preoccupazione per il progetto della Francia: la depenalizzazione, infatti, «non è l’oggetto del documento» spiegano Oltretevere. La dichiarazione «non cerca tanto di combattere la discriminazione dell’orientamento sessuale quanto di promuovere ogni orientamento sessuale e a questo fine di creare una nuova categoria di discriminazione, senza definirla, in modo da applicarla a tutti i diritti umani». Si vuole dunque, dicono Oltretevere «rileggere tutta le legislazione sui diritti umani alla luce dell’orientamento sessuale, introducendo nuove categorie protette e grazie a questa dichiarazione garantire a qualunque orientamento sessuale un trattamento identico a quello riservato alle persone eterosessuali, ad esempio in materia di matrimonio e di possibilità di adottare bambini». Insomma, un progetto che si propone ben altro rispetto alla depenalizzione e che cerca di far passare un principio al quale si possano poi riferire gli organismi di controllo delle Nazioni Unite, senza che questo sia in realtà mai stato discusso e approvato in aula. «Sulla base di quella nuova categoria di discriminazione - spiegano in Vaticano - si potrà cercare di restringere altri diritti e libertà, come quello alla libertà di espressione e di libertà religiosa».
Senza contare che si parla sempre di «orientamento sessuale» senza mai aver definito l’espressione, che in pratica potrebbe essere applicata anche ad altri orientamenti. Non bisogna infatti dimenticare che in Olanda esiste ufficialmente un partito dei pedofili. Il Vaticano teme che questa dichiarazione, che di per sé non è un documento consensuale dell’Onu, possa rappresentare l’inizio di un processo che miri a esercitare pressioni nei confronti di quegli Stati che non ammettono il matrimonio tra persone dello stesso sesso perché questo divieto rappresenterebbe una lesione dei diritti umani sulla base dell’orientamento sessuale. Già da tempo alcuni esperti hanno lanciato un allarme sulla possibilità che in sede europea e internazionale, grazie al lavoro di gruppi di pressione ben organizzati, siano fatte passare norme in grado di condizionare poi la sovranità dei singoli Paesi.



(A. Tornielli, Il Giornale, 2.12.2008)

22 ott 2008

OASIS - Whatever (ingl-ital)

TESTO

I'm free to be whatever I

Whatever I choose

And I'll sing the blues if I want


I'm free to say whatever I

Whatever I like

If it's wrong or right it's alright


Always seems to me

You only see what people want you to see

How long's it gonna be

Before we get on the bus

And cause no fuss

Get a grip on yourself

It dont cost much


Free to be whatever you

Whatever you say

If it comes my way it's alright


You're free to be wherever you

Wherever you please

You can shoot the breeze if you want


It always seems to me

You only see what people want you to see

How long's it gonna be

Before we get on the bus

And cause no fuss

Get a grip on yourself

It don't cost much


I'm free to be whatever I

Whatever I choose


And I'll sing the blues if I want


Here in my mind

You know you might find

Something that you

You thought you once knew

But now it's all gone

And you know it's no fun

Yeah I know it's no fun

Oh I know it's no fun


I'm free to be whatever I

Whatever I choose

And I'll sing the blues if I want


I'm free to be whatever I

Whatever I choose

And I'll sing the blues if I want


Whatever you do

Whatever you say

Yeah I know it's alright


Whatever you do

Whatever you say

Yeah I know it's alright



TRADUZIONE

Sono libero di essere qualsiasi cosa, qualsiasi cosa io scelga

e canterò la tristezza se ne avrò voglia


Sono libero di dire qualsiasi cosa, qualsiasi cosa mi piaccia,

giusta o sbagliata andrà comunque bene


Mi sembra che tu veda sempre ciò che le persone vogliono che tu veda


Quando tempo passerà prima che io e te saliremo sull'autobus

e non protestare, controllati, non costa molto


Sono libero di essere qualsiasi cosa, qualsiasi cosa tu dica

e se sarà come dico io andrà bene


Sei libera di essere qualsiasi cosa, qualsiasi cosa che ti pare

puoi anche masticare l'aria se vuoi


Qui nella mia mente sai che troveresti

qualcosa che tu pensavi di conoscere un tempo,

ma ora è tutto finito e tu sai che non è divertente,

sì, lo so non è divertente, oh, lo so non è divertente


Qualsiasi cosa tu faccia, qualsiasi cosa tu dica, si, so che andrà bene

11 ott 2008

Giovani e sesso (segue da "Pensiamoci sù...")

Il complesso tema della sessualità, pur non costituendo la realtà più importante nella vita di una persona, è oggi al primo posto dell’attenzione sana e della voglia di capire delle giovani generazioni.

Il fatto che questa società adulta si mostri “adolescenziale” agli occhi degli adolescenti non fa altro che screditare, nella prospettiva dei giovani teenager, il fatto di diventare loro un giorno adulti. Perché questo vorrebbe dire “arrivare a pensare un giorno come quelli”. Riguardo ad una cosa così importante il giudizio dei giovani non conosce mezzi termini: “La società adulta ha fallito nel sesso e nell’amore – sembrano decretare tacitamente - chi di noi la segue è un rintontito che si è lasciato abbindolare da questi pennelloni che avrebbero dovuto insegnarci ad amare e invece stanno lì a farsi di alcool e tradirsi su Internet. Adesso ognuno è solo. Deve arrangiarsi da sè e, sbattendo la faccia contro molti muri, sperare forse, molo forse, un giorno di arrivare ad imparare ad amare”.

In questa società fallita da questo punto di vista, ultimamente si riaccende la polemica sulle posizioni della Chiesa riguardo la contraccezione, e invece di cercare di capire il perché si scava un fossato ancora più profondo, irrazionale, tra credenti e non credenti riguardo un tema che dovrebbe vedere tutti uniti sulle cose fondamentali che riguardano gli uomini.

Il nodo del problema è la scissione anima-corpo (cfr. Death Cab for Cutie, Soul Meets Body). Nella nostra società fallita (nel know-how dell’emozione e nella gestione di affetti e sentimenti), siamo sin troppo abituati a pensare che “una cosa sono io e un’altra è il mio corpo”. Questo errore, nato quando Cartesio e Kant sproloquiavano, e mezzo mondo gli andava appresso, adesso lo paghiamo caro.

Per fare un esempio: è frequente sentire uno che vuole fare il macho che parlando di una ragazza, purtroppo, la definisca riferendosi agli organi genitali. Certo, tutti sanno che voleva dire che è una gran bella ragazza, ma guarda un po’ per dirlo deve scindere la persona dalla genitalità. Arrivare alla persona partendo dalla genitalità non è un percorso che giunge al termine. Di solito si ferma all’inizio. E non ci capiamo più (cfr. Tiromancino, Felicità)

Come fare a spiegare le posizioni della Chiesa?

Prima di tutto è importante ricordare che il sesso l’ha inventato Dio. Una premessa forse chiarificatrice per chi pensa che per i cattolici questo sia un campo “tabù”, difficile o scomodo. Il corpo, l’attrazione che provano due persone di sesso diverso, il piacere legato all’atto sessuale, tutto questo è uscito dalle mani di Dio; l’ha voluto Dio, l’ha inventato Dio e lo conosce molto meglio di quanto noi uomini possiamo conoscerlo.

Secondo passo: usciamo dalla teologia ed entriamo in campo antropologico. Come ha dimostrato parte della filosofia (anche atea) del secolo XX°, io-sono anche-il-mio-corpo. Così Husserl, Sartre e Merlau-Ponty. Di quest’ultimo leggiamo su Wikipedia: “Partendo dallo studio della percezione, Merleau-Ponty giunge alla conclusione che il corpo proprio non è solamente una cosa, un potenziale oggetto di studio della scienza, ma è anche la condizione necessaria dell'esperienza: il corpo costituisce l'apertura percettiva al mondo. Per così dire, il primato della percezione significa un primato dell'esperienza, nel momento in cui la percezione riveste un ruolo attivo e costitutivo. Lo sviluppo di suoi lavori instaura quindi un'analisi che riconosce sia una dimensione corporea della coscienza sia una sorta di intenzionalità del corpo. L'argomentazione è in netto contrasto, di fatto, con l'ontologia dualista delle categorie corpo-spirito di René Descartes”.

Terzo passo: riflettiamo. Quando uno dà la mano ad una persona sta significando qualcosa che avviene fuori ma anche dentro di sé (stima, rispetto). Quando uno da un bacio ad un genitore o ad un amico sta significando qualcosa che avviene fuori ma anche dentro di sé (affetto, confidenza). Quando due persone “fanno sesso” stanno significando due cose diverse dentro e fuori di sé. Questo, visto che coinvolge le dimensioni più profonde della persona, lascia un segno. Uno non può fare sesso come se si grattasse dietro l’orecchio o facesse le bolle di sapone (atti che pure coinvolgono il proprio corpo). Nel rapporto sessuale la persona è fortemente coinvolta (quasi risucchiata diremmo) da quello che sta facendo; tutte le sue dimensioni, fisiche e spirituali, lo sono. Ma è giusto che sia così: il sesso è il sigillo corporale del si che altrimenti rimarrebbe etereo.

Conclusione: il sesso unisce due persone che si sono dette sì con il cuore e con la mente perché non siamo (Cartesio ci senti?) solo mente, cogito. Tra parentesi, a tal proposito, converrà ricordare che il matrimonio rato e non consumato, cioè celebrato davanti a Dio ma al quale non è seguita la copula dei due coniugi è (dopo ampia indagine e solo da parte del Romano Pontefice) per la Chiesa “scindibile”. Dopo non più. Nemmeno il Papa può scindere l’unione rata e consumata. Perché è così? Ma per la straordinaria importanza che la Chiesa dà al corpo. Se due si dicono sì con la mente, con il cuore, con la volontà devono poi “completare” questo sì con il sì del corpo. Ma questo è vero solo per due che si danno del tutto, uno con una per sempre. Viceversa sarebbe finzione. E la finzione in queste cose porta male, crea scissione. Alla lunga frustrazione e incomprensione. Alla fine divisione (o morale o proprio separazione fisica), perché non basta l’unione dei corpi né quella delle sole volontà.

La contraccezione è separare (con la chimica o con la plastica) i due corpi, non unirli. Coloro che si amano così con lì’idea di avvicinarsi in realtà si allontanano fino ad arrivare a non riconoscersi più.

La contraccezione è (c’è bisogno di dirlo) quanto di più innaturale possa frapporsi tra due corpi. Chiedete al Lancet o al New England Journal of Medicine che risultati danno gli studi sul rapporto uso della pillola contraccettiva/tumori nella donna… E questa non è teologia, né antropologia: è avere sale in zucca e fare le cose bene. Nessuno mette dello Champagne nel serbatoio di una Jaguar dicendo: “ma è meglio della benzina!”. Certo sono due cose favolose (Champagne e Jaguar) ma nell’auto ci va la benzina e a tavola si beve lo Champagne. Il fatto che io possa materialmente mettere lo Champagne nella Jaguar non vuol dire che devo farlo o che è bene farlo. La natura mi ha dato l’intelligenza per formulare corretti giudizi in casi come questi.

La natura non và plagiata. Va studiata, compresa e – a fatica forse – vissuta. Noi questo oggi non lo capiamo perché siamo scissi dentro (e questo è di natura), distratti (e questo è lo stile di vita) e, come se non bastasse, circondati da falliti. Senza sconfortarci o giudicare gli altri (forse al loro posto avremmo fatto peggio), rimbocchiamoci le maniche (e i neuroni) e costruiamoci delle idee proprie in materia. E’ entusiasmante quello che propone Benedetto XVI: “la libertà presuppone che nelle decisioni fondamentali ogni uomo, ogni generazione, sia un nuovo inizio” (Enciclica Spe Salvi, n. 24). Questo è da fuoriserie (cfr. R.E.M., The Outsiders).

Non basta leggere o ascoltare, bisogna convincersene dialogando, confrontandosi e vivendo. La Chiesa ci dice “prenditi cura di te e del tuo corpo, agisci secondo natura”. Mancano maestri che insegnino ai giovani, con convinzione e con linguaggio appropriato, che questa è la strada.



The Bourne Ultimatum

Terzo episodio della saga di Jason Bourne, genialmente quanto glacialmente interpretato da Matt Dillon. Non è solo un gran bel film d’azione che 'afferra' lo spettatore, sia per l’incalzare delle scene quanto per la sensatezza della trama (“regge” decisamente meglio rispetto alle eccessive peripezie della sceneggiatura di Bourne Supremacy).

Questi giudizi positivi li possiamo leggere nel 90% delle recensioni su questo film. Quello che non si è evinto abbastanza è il risvolto antropologicamente denso della sceneggiatura. Questo ne fa un bel film in senso “pieno”.

In un mondo ossessionato dalla smania di sicurezza assistiamo ad un viraggio delle procedure della CIA. Il fascicolo segretissimo che Bourne cerca infatti, era quello di una procedura sperimentale che permetteva ai servizi “tacitamente deviati” di sbrigare in quattro e quattr’otto faccende per le quali sarebbe stato lento il ricorso al parere di Washington. La burocrazia aveva “reso indispensabile” il ricorso ad altri metodi decisamente disumani per ridurre all’impotenza i nemici degli USA: è il programma Blackbriar del Dipartimento della Difesa. Bourne evidentemente si rivela vittima e carnefice del suo stesso caso, ma non è neanche questo ciò che sorprende.

Finalmente una donna, Pamela Landy (una grande Joan Allen) ai vertici della direzione della CIA, prima si pone il problema (“non sono stata arruolata per questo”) e poi, visto che non le rimane altro da fare, invece di competere in freddezza e spietatezza, osa sfidare il pensiero maschilista di un suo parigrado (interpretato dall’esperto David Strathairn) che le grida “non giudicare le decisioni (spesso “perfettibili”) prese sul campo, tu che stai dietro una scrivania”. In tutto ciò i vertici stanno pilatescamente a guardare mentre i due si affrontano in singolar tenzone. Pamela avrà la meglio? Giudicatelo voi guardando il film.

Si stigmatizza il non-pensiero come fonte del male: il bene è legato all'accettazione della propria identità consapevolmente vissuta. Inoltre viene ben resa l’idea del genio femminile al servizio della giustizia e la capacità della donna di vedere “oltre” quello che si vede. O lo fa lei questo, o l’uomo (e il mondo) da solo non ci arriva.


30 set 2008

Il capo ideale? L'allenatore


Il buon capo è quello che sa tirare fuori il meglio dai propri collaboratori riuscendo a valorizzarli

MILANO - Conflitti, contrasti, malumori. La vita in un qualsiasi ufficio non è sempre semplice. E gran parte della responsabilità è sulle spalle di chi quell’ufficio è chiamato dirigerlo. Vale a dire il capo. Un ruolo quello del capo, che, mai come oggi è messo in discussione. Dalle aziende, dai lavoratori, dalla società.

Il capo ideale è quello che, come un allenatore, (nella foto Josè Mourinho) sa tirare fuori il meglio dai propri collaboratori (Fotopress)
Il capo ideale è quello che, come un allenatore, (nella foto Josè Mourinho) sa tirare fuori il meglio dai propri collaboratori (Fotopress)
Venuti meno i modelli tradizionali, non esiste più un solo modo per essere capo. Ma qual è il capo ideale e cosa deve fare un capo per essere un buon capo? A queste ed altre domande risponde il libro-ricerca “Che capo vuoi?” a cura di Walter Passerini (giornalista del Sole 24 e ideatore del Corriere Lavoro, storico supplemento del Corriere della Sera) e Marco Rotondi (ingegnere e psicologo, presidente dell’Istituto europeo di neurosistemica) edito da Guerini e Associati.

LA CRISI DEL CAPO - Il libro ha un doppio volto. Da un lato ci fa capire i perché della necessità di rimettere in discussione la figura del capo, dall’altro attraverso i risultati, di un duplice indagine sul campo, qualitativa e quantitativa, ci permette di individuare che tipo di capo vuole il dipendente. Infatti la crisi del ruolo di chi è chiamato a guidare un ufficio o un’impresa nasce dal fatto che spesso il capo non sa cosa vuol dire essere un capo. Naturalmente cerca di raggiungere gli obiettivi che gli vengono richiesti, ma non viene quasi mai valutato per ciò che è riuscito a creare: un team affiatato, buone relazioni all’interno di un ufficio, un organizzazione efficiente, la capacità di far cogliere ad ognuno dei suoi collaboratori il significato del proprio lavoro. Una valutazione che invece è tanto necessaria perché ci permetterebbe di individuare quei leader in grado di trasformare non più solo le aziende, ma anche la società e il Paese in cui viviamo. Come spiega Passerini: è giunto il momento “non di creare una classe dirigente alla ricerca di alibi, che gioca con la società al puro effetto ottico del rispecchiamento. Ma una vera classe dirigente che è diversa dall’essere ‘dirigenti’. Per questo serve più autocoscienza del ruolo, più coraggio, più consapevolezza. Il Paese ha bisogno di merito e mobilità e di liberarsi dai vecchi meccanismi del potere. Servono nuove palestre della leadership. Le imprese sapranno esserlo e diventarlo?”

LE QUALITA’ DEL BUON CAPO – Ma cosa viene richiesto dai dipendenti al proprio capo per poterlo definire un buon capo? Il libro fornisce una risposta che emerge da una duplice ricerca qualitativa e quantitativa. Premesso che una relazione felice con il proprio capo è giudicata dalla grande maggioranza degli intervistati “come elemento indispensabile per lavorare al meglio” un buon capo secondo i dipendenti deve avere innanzitutto 3 qualità:
1) Avere interesse reale per i propri collaboratori, vale a dire, da un lato saper stabilire un confronto vero con chi lavora con lui, dall’altro, saper rimanere autentico.
2) Essere in grado di mandare avanti un rapporto di fiducia reciproca.
3) Essere in grado di conferire deleghe chiare ai propri collaboratori

IL CAPO IDEALE – Accanto all’indagine qualitativa emerge però anche quella quantitativa, realizzata analizzando le risposte di oltre 190.000 dipendenti contattati via web. Dall’indagine emerge che la figura ideale di capo è per il dipendente italiano medio quella di un uomo, italiano cinquantenne. Il capo inoltre a detta dei collaboratori deve avere altre importanti caratteristiche:
1) Deve agire come un coach, vale a dire saper valorizzare il potenziale dei collaboratori
2) Deve avere un atteggiamento da team player vale a dire “orientato al raggiungimento del risultato attraverso la valorizzazione delle competenze del gruppo e la delega”.
3) Deve saper supportare la ricerca di soluzioni innovative attraverso la sintesi e la sperimentazione;
4) Deve saper valorizzare le idee dei collaboratori e dare la possibilità di lavorare in autonomia;
5) Deve essere in grado di valutare i propri collaboratori gestendo il processo di feedback e misurando i risultati portati da ognuno;
6) Deve saper stimolare il miglioramento trasferendo delle certezze;
7) Deve saper gestire i collaboratori creando spirito di squadra e appianando i conflitti;
8) Deve saper valorizzare i risultati della squadra anche verso gli altri capi.

UN CAPO DIVERSO PER DIVERSE SITUAZIONI – Ma anche se le linee guida prima tratteggiate forniscono un identikit abbastanza fedele di chi è e come deve agire un buon capo, come spiega Gianni Dell’Orto, presidente di Neusearch, nell’ultimo capitolo del libro, non esiste un capo ideale per tutte le aziende e per tutte le stagioni: “Dopo aver incontrato e intervistato almeno 13.000 capi sono giunto alla conclusione che a seconda della situazione esiste un capo che funziona meglio.Quindi le diverse situazioni esigono diversi tipi di capo”.

Marco Letizia
29 settembre 2008

Università malata. La denuncia di Roberto Perotti: clientelismo e sprechi

Inchiesta L’economista della Bocconi analizza un sistema disastroso. E spiega quali sono i rimedi

La prof che non pubblicò una riga

Il bello del calcio è che, qualche volta, può accadere l’impossibile: la Corea del Nord che batte l’Italia, l’Algeria che batte la Germania, Israele che batte la Russia. Il brutto dell’università italiana è che troppo spesso accade l’impossibile. Come all’Università di Bari, dove un concorso del 2002 dichiarò idonea alla cattedra l’aspirante docente Fabrizia Lapecorella, che aveva zero pubblicazioni nelle quattro categorie delle 160 riviste più importanti del mondo, zero nelle prime venti riviste italiane, zero in tutte le altre, zero libri firmati come autore, zero libri come curatrice, zero libri come collaboratrice. E ovviamente zero citazioni fatte dei suoi lavori: come potevano citarla altri studiosi, se non risulta aver mai scritto una riga? Eppure, battendo una concorrente che aveva un dottorato alla London School of Economics, 10 pubblicazioni e 31 citazioni sulle riviste nazionali e internazionali più importanti, vinse lei. Destinata a essere promossa poco più di tre anni dopo, dal terzo governo Berlusconi, direttore del Secit per diventare col secondo governo Prodi esperto del Servizio consultivo e ispettivo tributario e infine, di nuovo con Tremonti, direttore generale delle Finanze. Una carriera formidabile. Durante la quale, stando alla banca dati centrale di tutte le biblioteche italiane, non ha trovato il tempo per scrivere una riga. Sia chiaro: magari è un genio. E forse dovremo essere grati a chi l’ha scoperta nonostante difettasse di quei lavori che all’estero sono indispensabili per diventare ordinari.

Ma resta il tema: con quali criteri vengono distribuite le cattedre nella università italiana? Roberto Perotti, PhD in Economia al Mit di Boston, dieci anni di docenza alla Columbia University di New York dove ha la cattedra a vita, professore alla Bocconi, se lo chiede in un libro ustionante che non fa sconti fin dal titolo: L’università truccata. Gli scandali del malcostume accademico. Le ricette per rilanciare l’università (Einaudi). Un’analisi spietata. A partire, appunto, dal sistema di assegnazione delle cattedre. Dove i casi di persone benedette dalla nomina a «ordinario » con 12 «zero» su 12 in tutte le tabelle delle pubblicazioni e delle citazioni, a partire da quelle del «Social Science Citation Index», sono assai più frequenti di quanto si immagini, visto che Perotti ne ha scovati almeno cinque. Dove capita che il rettore di Modena Giancarlo Pellicani indica una gara vinta dal figlio Giovanni anche grazie alla scelta di non presentarsi di 26 associati su 26. Dove succede che il preside di Medicina a Roma, Luigi Frati, possa vincere la solitudine avendo al fianco come docenti la moglie Luciana, il figlio Giacomo, la figlia Paola. Un uomo tutto casa e facoltà. Che probabilmente diventerà rettore della Sapienza. Superato solo da certi colleghi baresi come i leggendari Giovanni Girone, Lanfranco Massari o Giovanni Tatarano, negli anni circondati da nugoli di figli, mogli, nipoti, generi... Il familismo è però solo una delle piaghe nelle quali il professore bocconiano (che ha l’onestà di toccare perfino il suo ateneo, rivelando che «l’ufficio relazioni esterne della Bocconi impiega circa 100 persone e ha un bilancio di 13 milioni di euro» che basterebbero ad assumere «i migliori docenti di economia degli Usa») affonda il bisturi. A parte quello che «il clientelismo e la corruzione esistono, ma sono tutto sommato circoscritti», Perotti fa a pezzi almeno altri tre miti. Uno è che «il vero problema dell’università italiana è la mancanza di fondi». Non è vero. Meglio: è vero che «le cifre assai citate della pubblicazione dell’Ocse "Education at a Glance" danno per il 2004 una spesa annuale in istruzione terziaria di 7.723 dollari per studente» appena superiore ad esempio a quella della Slovacchia o del Messico. Ma se si tiene conto che metà degli iscritti è fuori corso e si converte più correttamente «il numero di studenti iscritti nel numero di studenti equivalenti a tempo pieno», la spesa italiana per studente «diventa 16.027 dollari, la più alta del mondo dopo Usa, Svizzera e Svezia ». Quanto agli stipendi dei docenti, è verissimo che all’inizio sono pagati pochissimo, ma da quel momento un meccanismo perverso premia l’anzianità (mai il merito: l’anzianità) fino al punto che un professore con 25 anni di servizio da ordinario non solo prende quattro volte e mezzo un ricercatore neoassunto ma «può raggiungere uno stipendio superiore a quello del 95 percento dei professori ordinari americani (...) indipendentemente dalla produzione scientifica».

Altro mito: nonostante tutto, «l’università italiana è eroicamente all’avanguardia mondiale della ricerca in molti settori».Magari! Spiega Perotti che in realtà, al di là della propaganda autoconsolatoria, fra i primi 500 atenei del mondo, secondo la classifica stilata dall’università cinese Jiao Tong di Shanghai, quelli italiani sono 20 e «la prima (la Statale di Milano) è 136ª, dietro istituzioni quali l’Università delle Hawaii a Manoa ». Certo, sia questa sia la classifica del Times (dove la prima è Bologna al 173˚posto) sono fortemente influenzate dalle dimensioni dell’ateneo. Infatti nella «hit parade» pro capite della Jiao Tong 2008 possiamo trovare al 19˚posto la Normale di Pisa. Ma a quel punto le grandi università italiane slittano ancora più indietro: la Statale milanese al 211˚,Bologna al 351˚,la Sapienza addirittura a un traumatico 401˚posto. Da incubo. Quanto al quarto mito, quello secondo cui «l’università gratuita è una irrinunciabile conquista di civiltà, perché promuove l’equità e la mobilità sociale consentendo a tutti l’accesso all’istruzione terziaria», l’economista lo smonta pezzo per pezzo. I dati Bankitalia mostrano che nel Sud (dove il fenomeno è più vistoso) dal 20% più ricco della società viene il 28% degli studenti e dal 20% più povero soltanto il 4%. Un settimo. In America, dove l’università si paga, i poveri che frequentano sono il triplo: 13%. Come mai? Perché al di là della demagogia, spiega l’autore, l’università italiana è «un Robin Hood a rovescio, in cui le tasse di tutti, inclusi i meno abbienti, finanziano gli studi gratuiti dei più ricchi ». Rimedi? «Basta introdurre il principio che l’investimento in capitale umano, come tutti gli investimenti, va pagato; chi non può permetterselo, beneficia di un sistema di borse di studio e prestiti finanziato esattamente da coloro che possono permetterselo». Non sarebbe difficile. Come non sarebbe difficile introdurre dei sistemi in base ai quali il rettore che «fa assumere la nuora incapace subisca su se stesso le conseguenze negative di questa azione e chi fa assumere il futuro premio Nobel benefici delle conseguenze positive». Tutte cose di buon senso. Ma che presuppongono una scelta: puntare sul merito. Accettando «che un giovane fisico di 25 anni che promette di vincere il premio Nobel venga pagato tre volte di più dell’ordinario a fine carriera che non ha mai scritto una riga». Ma quanti sono disposti davvero a giocarsela?

Gian Antonio Stella
30 settembre 2008

Inaugurazione dell'anno scolastico al Quirinale

Napolitano: «Nella scuola serve un rinnovamento coraggioso»

Il Capo dello Stato: «Non sono sostenibili posizioni di pura difesa dell'esistente. Inevitabili tagli della spesa»

Giorgio Napolitano (Ansa)
Giorgio Napolitano (Ansa)
ROMA - Giorgio Napolitano, intervenendo alla cerimonia di inaugurazione dell'anno scolastico, che si è svolta al Quirinale ha detto che «per avere un'Italia migliore abbiamo bisogno di una scuola migliore». Le condizioni del nostro sistema scolastico- ha aggiunto Napolitano- richiedono scelte coraggiose di rinnovamento: «non sono sostenibili posizioni di pura difesa dell'esistente. Nel campo della scuola non si tratta di ripartire da zero ogni volta che con le elezioni cambia il quadro politico».
CONTENIMENTO DELLA SPESA -
Il presidente della Repubblica ha richiamato tutti al senso di responsabilità per «ridurre a zero nei prossimi anni il deficit pubblico, per incidere sempre di più sul debito accumulato nel passato. Nessuna parte sociale e politica può sfuggire a questo imperativo ed esso comporta, inutile negarlo, un contenimento della spesa per la scuola».

CONFRONTO IN PARLAMENTO - Per migliorare la scuola, sempre secondo Napolitano «è necessario partire con uno sforzo di maggiore serenità, nel confronto tra maggioranza e opposizione in Parlamento, e tra Governo e parti sociali, dai problemi che nessuno può negare». Per il capo dello Stato inoltre è necessario «che si discutano con spirito aperto tutte le diverse soluzioni che ciascuna parte ha il diritto di proporre e ha il dovere di prospettare in termini positivi e coerenti». Per questo Napolitano ha auspicato che «compiano tutti uno sforzo per evitare contrapposizioni pericolose, mostrino tutti senso della misura e realismo nell'affrontare anche questioni più spinose».

CITTADINANZA E COSTITUZIONE - Il Presidente della Repubblica ha anche detto di cosiderare «importante e positiva la decisione annunciata dal ministro Gelmini di avviare nel primo e secondo ciclo di istruzione la sperimentazione di una nuova disciplina dedicata ai temi "cittadinanza e costituzione. Mi auguro- ha concluso il capo dello Stato- che si consolidi una concreta e impegnativa scelta in questo senso».

27 set 2008

Il diavolo veste Prada

di David Frankel, con Meryl Streep, Anne Hathaway, Stanley Tucci – commedia – USA- 2006 – 109’
Moda: don't give in without a fight.
Giovane ragazza di provincia diventa collaboratrice di uno dei più importanti magazine del mondo della moda, ma dovrà fare i conti con la dispotica direttrice. Azzeccata ironia/ridimensionamento delle dinamiche insite nel mondo della moda. Sei fuori dal mondo e repellente perchè "... tu mangi carboidrati...!".

Aspetti negativi: si rischia di demonizzare un atteggiamento tutto sommato "neutro". Che male fa la giovane segretaria ad andare a Parigi al posto della più anziana collega che rimane a casa ammalata? Se l'avesse fatto apposta sarebbe concorrenza sleale e arrivismo, ma così... Inoltre se tutte le brave ragazze ne restassero fuori chi è che darebbe un tocco di umanità allo stressantissimo, fintissimo, anoressissimo mondo della moda? Certo, ci vuole carattere per restarci in sella senza subirne le lusinghe...ma vale la pena: la posta in gioco (e non solo gli stipendi...la moda è cultura) è altissima. E allora, volete dirmi che non c'è nessuno che ce la può fare?

Valori positivi: l’autenticità e l’importanza dell’essere sé stessi come chiave della felicità.

P.S.: grande Meryl Streep.

Coming soon: To educate in the multicultural society





























...are yoy ready for the match?







19 set 2008

CRISTIANI E MUSULMANI INSIEME PER DIGNITÀ DELLA FAMIGLIA

CITTA' DEL VATICANO, 19 SET. 2008 (VIS). Il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso ha reso pubblico oggi il Messaggio annuale per la fine del Ramadan “Id al-fitr 1429 E. / 2008 A.D.), sul tema: “Cristiani e musulmani: Insieme per la dignità della famiglia”. Il Documento reca la firma del Cardinale Jean-Louis Tauran e dell’Arcivescovo Pier Luigi Celata, rispettivamente Presidente e Segretario del Dicastero.

Di seguito sono riportati estratti del Messaggio, pubblicato in lingua inglese, francese, italiana e araba.

“Cari Amici musulmani (...). Durante questo mese, cristiani vicini a voi hanno condiviso le vostre riflessioni e le vostre celebrazioni familiari; il dialogo e l’amicizia si sono rafforzati. Dio ne sia lodato!”.

“Ma, come per il passato, questo amichevole appuntamento ci offre anche l’occasione di riflettere insieme su un tema di attualità capace di arricchire i nostri scambi e di aiutarci a conoscerci meglio, con i nostri valori comuni e le nostre differenze. Per quest’anno, noi abbiamo pensato di proporvi il tema della famiglia”.

“Uno dei documenti del Concilio Vaticano II ‘Gaudium et Spes’, sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, afferma: ‘La salvezza della persona e della società umana e cristiana è strettamene connessa con una felice situazione della comunità coniugale e familiare. Perciò i cristiani, assieme a quanti hanno alta stima di questa stessa comunità, si rallegrano sinceramente dei vari sussidi grazie ai quali gli uomini di oggi progrediscono nel favorire questa comunità di amore e nel rispetto della vita”.

“Queste parole ci ricordano opportunamente che lo sviluppo della persona e della società dipende in gran parte dalla prosperità della comunità coniugale e familiare! Quanti sono coloro che portano, qualche volta, per tutta la vita, il peso delle ferite di una situazione familiare difficile o drammatica? (...) Cristiani e musulmani, noi possiamo e noi dobbiamo operare congiuntamente alla salvaguardia della dignità della famiglia, oggi e domani”.

“In questo campo, noi abbiamo avuto spesso l’occasione di collaborare, sia a livello locale che internazionale, poiché entrambi cristiani e musulmani hanno un’alta considerazione della famiglia. La famiglia, luogo dove l’amore e la vita, il rispetto per l’altro e l’ospitalità si incontrano e si trasmettono, è certamente la ‘cellula fondamentale della società’”.

“Cristiani e musulmani, non devono esitare ad impegnarsi, non solamente per venire in aiuto alle famiglie in difficoltà ma anche per collaborare con tutti coloro che hanno a cuore il favorire la stabilità dell’istituzione familiare e l’esercizio della responsabilità parentale, in particolare nel campo dell’educazione. Non è superfluo ricordare qui che la famiglia è la prima scuola dove si apprende il rispetto dell’altro, nella sua identità e nella sua differenza. Il dialogo interreligioso e l’esercizio della cittadinanza non possono dunque che beneficiarne”.

OP/MESSAGGIO RAMADAN/TAURAN:CELATA VIS 080919 (450)

1 set 2008

Stress da rientro

Senso di stordimento, calo dell'attenzione, mal di testa, digestione difficile, raffreddore, mal di gola, tosse e dolori muscolari possono essere manifestazioni del cosiddetto stress da rientro, o meglio, di quello stato di tristezza post-vacanza.
La ragione del repentino mutamento del nostro umore è, il più delle volte, il rapido cambiamento delle abitudini: se durante le vacanze siamo stati rilassati e occupati in attività che non comportano particolari obblighi, il ritorno a casa e al lavoro rappresenta la ripresa dei ritmi di tutti i giorni e delle responsabilità della vita quotidiana.

Questi cambiamenti, soprattutto se avvengono in maniera brusca, possono causare una perturbazione nei delicati equilibri dell’organismo. Il corpo necessita di qualche tempo per "acclimatarsi" e abituarsi alle nuove condizioni di vita e, durante questo periodo, soffre. Da qui, l’impressione del sentirsi giù, distratti, poco efficienti, con la testa tra le nuvole.

Queste sensazioni, che comunque spariscono in un po' di tempo, possono essere ridotte e contenute con qualche attenzione. È importante, per prima cosa, prepararsi in anticipo e in modo progressivo al cambiamento e programmare qualche giorno di riposo prima della data effettiva del rientro. In questo modo potremo arrivare alla fine della vacanza pieni di energie.
Attenzione anche a riprendere la vita quotidiana in modo graduale non facendosi prendere dal panico dalla mole di lavoro che, probabilmente si è accumulata durante la nostra assenza. Almeno nella prima settimana è meglio puntare su piccoli obiettivi davvero essenziali e lasciare per un secondo momento i progetti di lavoro più complessi e ambiziosi.

Una curiosità: il nome dello stress post-vacanza, in inglese, è Post-Vacation Blues, da "blue" che significa anche tristezza, depressione. A questo significato si riallaccia anche il nome dello stile musicale blues, originariamente canto di tristezza, dolore e angoscia quotidiana, diffuso tra le comunità nere americane in schiavitù.

29 ago 2008

Italiani, bocciati in Inglese

Dal sito on line del Corriere della Sera 29.8.2008

Sei su dieci non sono in grado di sostenere una conversazione E il 30% degli studenti ha un debito in questa materia

Sudori freddi, crisi di panico, balbettii inconsulti. Sostenere una conversazione in una lingua straniera è ancora una missione impossibile per sei italiani su dieci. Un dato sconfortante in un mondo ormai globalizzato che ci pone al terzultimo posto tra i Paesi dell’Unione Europea. Dietro di noi, secondo l’ultima ricerca condotta da Eurobarometro, ci sono solo irlandesi e britannici. E la situazione non migliora con il passar del tempo. Anzi. Se si confrontano i dati del 2001 con quelli del 2006 si scopre che gli italiani in grado di sostenere una conversazione in una lingua straniera sono passati dal 46% al 41%, a fronte di una media Ue del 50%, che sale a oltre il 90% per molte nazioni del Nordeuropa. Anche l’indagine condotta dal Censis per il progetto Let it Fly («Learning education and training in the foreign languages in Italy») indica che gli italiani le lingue le studiano (il 66,2%) ma non le parlano. Il 50,1%, infatti, confessa di averne una conoscenza solo «scolastica», il 23,9% la definisce «buona» e solo il 7,1% «molto buona». «Il quadro è veramente triste — dice Giuseppe Roma, direttore generale del Censis —perché conoscere l’inglese a livello scolastico significa non poterlo parlare. Purtroppo in Italia le lingue non le sappiamo insegnare, abbiamo una scuola tutta incentrata sui contenuti. Invece bisognerebbe cercare di trasmettere un metodo».

Se a questo si aggiunge lo scivolone del Ministero della Pubblica istruzione che all’ultima maturità ha presentato una traccia per la prova di inglese piena di errori da matita blu, il dubbio che la scarsa conoscenza delle lingue in Italia non sia dovuta alla pigrizia dei suoi cittadini diventa quasi una certezza. Qualcosa non funziona nel percorso didattico. «C’è scarsa connessione tra i vari cicli della scuola — spiega Ruggero Druetta, ricercatore all’Università di Torino nella facoltà di Economia —. La mancanza di continuità e la disomogeneità portano a ricominciare sempre da zero». Il risultato è che 13 anni di studi, dalla scuola primaria a quella superiore, non permettono di padroneggiare una lingua. Lo confermano gli ultimi dati forniti dal Ministero guidato da Mariastella Gelmini: dopo la matematica, l’inglese è la nostra seconda bestia nera. Nel 2008 sono stati il 30,6% gli alunni che hanno chiuso l’anno con un debito in questa materia. A mettere i puntini sulle «i», lo scorso marzo, è stata la Conferenza dei Presidi delle Facoltà di Lingue e letterature straniere che ha parlato di una vera e propria emergenza: «In Italia si ritiene — si legge in un comunicato — che la competenza comunicativa internazionale si possa esaurire con una rudimentale o mediocre conoscenza di un inglese basilare per di più sovente lontano da scorrevolezza e pronuncia accettabili».

Il nostro Paese, tra l’altro, ha largamente disatteso le indicazioni della Comunità europea che, dalla Convenzione di Lisbona del 1997, chiede agli Stati membri di promuovere il plurilinguismo, ovvero l’insegnamento di almeno due lingue comunitarie oltre quella madre. Noi, invece, puntiamo (e male) solo sull’inglese tanto che, nel 2005, l’allora ministro della Pubblica istruzione Letizia Moratti ha stabilito che tutta la quota oraria destinata all’insegnamento delle lingue straniere nella scuola secondaria potesse essere dedicata interamente alla lingua di Shakespeare.

«In realtà—spiega Silvia Diegoli dell’associazione per l’insegnamento della lingua francese (Anilf)—dalla primaria fino alla superiore, se lei scorre qualsiasi indirizzo, gli studenti studiano una e una sola lingua straniera. Non ci si rende conto che questa è una carta che gioca a sfavore dei nostri ragazzi rispetto a quelli degli altri Paesi». I problemi cominciano sin dalle elementari. «Nelle scuole primarie — dice ancora Diegoli — l’insegnamento avviene in modo estemporaneo e lacunoso. Prima c’erano i maestri specializzati che facevano un corso abilitante, ora tanti si sono messi a insegnare la lingua pur avendo competenze approssimative ».

La sessualità secondo Giovanni Paolo II (Y. Semen, 2005)

Dottore in Filosofia, sposato, padre di sette figli, Y. Semen è direttore dell’Istituto europeo di studi antropologici Philanthropos di Friburgo, in Svizzera, e docente alla Libera Facoltà di Filosofia (IPC) di Parigi. Il suo testo, scorrevole ed accessibile a tutti, è una lucida sintesi, che nasce da una penetrante analisi, della lunga catechesi di Giovanni Paolo II sull’amore umano nel piano divino.

La teologia del corpo fu presentata dal grande Papa nelle udienze del mercoledì, dal 1979 al 1984, durante i primi anni del suo pontificato. L’autore ne narra la genesi, con riferimenti precisi agli inizi del ministero di Karol Wojtyla tra fidanzati e giovani sposi, cercando di evidenziare la portata fortemente innovativa di questo insegnamento in seno alla dottrina morale cattolica. Quest’ultima ne esce infatti completamente rinnovata e pronta ad affrontare le delicate sfide dei nostri giorni: “Sessualità e santità… Con Giovanni Paolo II, quel che appena si sarebbe osato pensare diventa un’evidenza: questa due dimensioni della vita umana e cristiana sono definitivamente associate. La sessualità è di essenza divina: non è un residuo della nostra animalità. Forse sarà quest’affermazione che fra poco diventerà la “rivoluzione wojtyliana”, una rivoluzione che sarà per la sessualità ciò che la rivoluzione copernicana fu per l’astronomia: un rovesciamento assoluto di prospettiva” (p. 199).


Dopo aver delineato la tradizionale teologia del matrimonio, per come veniva impostata già ai tempi in cui Karol Wojtyla era un giovane attore, Semen espone i limiti che si incontravano in campo pastorale nel porgere la dottrina di sempre in un modo che però, con il trascorrere del tempo, rischiava di essere sempre meno adeguato (cap I: Giovanni Paolo II: un inedito approccio alla sessualità, pp. 19-64). In questo contesto nasce e si sviluppa l’idea del giovane sacerdote, poi porporato polacco, di ripresentare in modo nuovo ed attraente la dottrina sulla sessualità umana.


Nel secondo capitolo Semen entra nel vivo della questione della sessualità cominciando con alcune considerazioni sul nostro atteggiamento riguardo la “questione” del corpo: “questione scabrosa – scrive -, dato che inevitabilmente ci fa riandare alla percezione che abbiamo del male: la spaccatura che avvertiamo in noi far le chiamate dello spirito e le pesantezze del corpo ci appare infatti come un’anomalia che non dovrebbe esistere, come una contraddizione, un male. E abbiamo il sentimento, confuso ma profondamente ancorato in noi, che la responsabilità di quest’anormale situazione vada attribuita al nostro corpo. E’ l’esperienza umana di tutti. In questa sorta di dissociazione, di spaccatura fra spirito e carne, il corpo ci appare come qualcosa di imperfetto, d’impuro, magari perfino un “errore” da cui dovremmo liberarci. (…) Insomma, molto spesso ci accade di mettere sotto accusa il corpo: il male della nostra condizione umana viene dal nostro corpo” (p. 65-66).


A questo punto il filosofo francese non si ferma ad una semplice constatazione ma, seguendo il pensiero di Giovanni Paolo II, ci suggerisce di progredire in questa analisi chiedendoci “Perché abbiamo un corpo, e perché a noi pare che questo corpo si ribelli allo spirito?” (ibid.). Infatti, afferma poco dopo, la teologia del corpo di Giovanni Paolo II “è una pedagogia che vuol farci capire il vero senso del nostro corpo”. Sul filo di questa considerazione, arricchita di profondi riferimenti ai brani dell’Antico e del Nuovo Testamento utilizzati nelle catechesi del Pontefice, l’Autore imbastisce la sua interessante e convincente trattazione riguardo il piano di Dio sulla sessualità umana (pp. 65-102).C’è da dire che lungo il suo discorso Semen fa anche importanti ed attuali riferimenti all’humus culturale di cui si nutre il modo contemporaneo di concepire la sessualità. Infatti, ci dice, quando scopriamo il sesso come essenziale componente della persona e non come un mero attributo accidentale, troviamo che “gli odierni partigiani dell’ideologia del “genere” si oppongono in modo radicale a questo modo di vedere, e fanno mostra di grande attivismo per far prevalere la loro posizione in tutti i grandi organismi (lo fecero in particolare alla conferenza del Cairo del 1994 e di Pechino del 1995), ONU compresa. Secondo il loro modo di vedere, la differenza sessuale e i rispettivi “ruoli” dell’uomo e della donna non provengono dalla natura, ma sono un prodotto delle culture, e prodotto ancora in continua evoluzione. (…) E’ un modo di vedere completamente diverso da quello che ci insegna la Genesi: qui la differenza sessuale è costitutiva della persona e la definisce in maniera essenziale. Siamo uomo o donna in tutte le dimensioni della nostra persona, perché altrimenti non potremmo essere dono. Uomo e donna, siamo della medesima umanità, ma la differenza sessuale ci identifica fin nella radice del nostro essere e ci costituisce come persona, dandoci la complementarietà necessaria per il dono di noi stessi” (pp. 87-88).


I successivi tre capitoli sono dedicati rispettivamente a: Il peccato, il desiderio e la concupiscenza (pp. 103-138), Il matrimonio, la Redenzione e la Risurrezione (pp. 139-168), ed infine La sessualità e la santità (pp. 169-198). In essi Semen analizza, nei discorsi di Giovanni Paolo II, tutti i fattori che influiscono sul significato della sessualità come dobbiamo intenderlo in pienezza. “Il peccato delle origini – dice, ad esempio – è un avvenimento fondativo, e di capitale importanza, che chiaramente delinea le frontiere tra un «prima» - il prima delle origini, della «preistoria teologica dell’uomo» - e un «dopo», il dopo dell’uomo storico, irrimediabilmente segnato dalle conseguenze di quel peccato. (…) «L’esperienza del corpo quel possiamo desumere dal testo arcaico di Genesi 2, 23, e più ancora di Genesi 2, 25, indica un grado di “spiritualizzazione” dell’uomo diverso da quello di cui parla lo stesso testo dopo il peccato originale (Genesi 3) e che noi conosciamo dall’esperienza dell’uomo “storico”. E’ una diversa misura di “spiritualizzazione”, che comporta un'altra composizione delle forze dell’uomo stesso, quasi un altro rapporto corpo-anima, altre proporzioni interne tra la sensitività, la spiritualità, l’affettività, cioè un altro grado di sensibilità interiore verso i doni dello Spirito Santo (Giovanni Paolo II, Udienza del 13 febbraio 1980, §. 2)».


Lungo queste pagine si delinea una vera e propria vocazione del corpo all’interno della quale ogni essere umano è coinvolto. Profondi e pertinenti in quest’ottica, anche i riferimenti alla vocazione al celibato (pp. 158-167), perfettamente in linea con la teologia del corpo esposta da Giovanni Paolo II: “E la vocazione del corpo resta sempre la medesima qualunque sia lo stato di vita. Può esprimersi nel matrimonio, ma s’incarna e si vive anche nel celibato voluto per il Regno dei cieli, senza che il corpo rinneghi nulla del suo significato coniugale, della sua vocazione allo sposalizio, alle nozze. Insomma, non c’è che una vocazione, cioè la vocazione al matrimonio; perché tutti siamo chiamati alle nozze, qualunque sia il nostro stato di vita. La vocazione al celibato è una forma, una modalità del matrimonio nel senso profondo della parola, perché è una modalità del dono della persona. O perlomeno è così che si deve viverlo – o accettarlo -, volendone realizzare appieno il significato umano e personale” (p. 101).


Un libro, come abbiamo detto, molto attuale, ben scritto e accessibile a tutti, che soprattutto i giovani fidanzati, i genitori di figli adolescenti e i sacerdoti troveranno molto utile per la loro formazione e l’adempimento ottimista e coerente dei compiti cui sono chiamati.


(da F. Romano, pubblicato in Studi Cattolici, n. 555, maggio 2007, pp 410-411)

12 ago 2008

La guerra di Charlie Wilson

Regia: Mike Nichols Sceneggiatura: Aaron Sorkin Anno: 2007
Durata: 97'
Data uscita in Italia: 08 febbraio 2008
Genere: biografico,drammatico

Attori:
Joanne Herring
Julia RobertsGust Avrakotos Philip Seymour HoffmanCharlie Wilson Tom HanksBonnie Amy Adams

Trama. Tratto dal bestseller di George Crile. Charlie Wilson è un deputato del Texas nell'America degli anni Ottanta. Joanne Herring è una delle donne più ricche e potenti d'America, fortemente anticomunista. Chiede l'aiuto di Charlie per assicurare ai Mujahideen afghani armi e denaro nella guerra contro la Russia. Collabora con Charlie l'agente della CIA Gust Avrakotos.

Comment. L’aspetto etico è un po’ confuso. E’ l’altra faccia del cinema americano: quello del deputato americano che reagisce al sopore che ingessa i suoi colleghi, diventa un grande eroe e per questo gli si perdona di essere stato un po’ inciucione e doppiogiochista. Come a dire, dietro ogni sbruffone ci può essere un vero uomo (solo che se andiamo alle percentuali di quante volte questo avvenga… vediamo che la virtù richiede esercizio e una certa costanza nella lotta per essere coerenti: comunque ci sono tanti virtuosi estemporanei, d’accordo).

Tutto sommato però è un’America che fa autocritica e una volta tanto, senza cadere nel nostrano piagnucoliamo-autolesionista, in questo ci imita un po’.
Anche quì brevi scene volgarotte fanno scadere il tono divertente, anche se mai avvincente, del film.

American Gangster

Regia: Ridley Scott Sceneggiatura: Steven Zaillian Anno: 2007. Nazione: Stati Uniti d'America. Durata: 160'. Data uscita in Italia: 18 gennaio 2008. Genere: drammatico

Durante la guerra in Vietnam lo spacciatore Frank Lucas importa eroina negli Stati Uniti dalla Thailandia. Sulle sue tracce si mette il Detective Richie Roberts.

Superba interpretazione di due dei migliori attori del momento. Si rivede il grande Russel Crowe di The Insider e Beautifull Mind ed un Denzel Washington che sta migliorando a vista d’occhio le sue già ottime performance e forse non si era mai visto così in forma. La sceneggiatura regge ed il fatto che sia tratto dalla vera storia di Frank Lucas e che la regia sia di Ridley Scott (Blade Runner, Il Gladiatore, Un’ottima annata, etc.) rende il tutto più intricante.

Valori: si comprende come i cattivi in fondo fanno una vita da cani e lo sono perché il più delle volte hanno avuto grossi problemi; il crimine non paga; essere sempre onesti è difficile ma alla fine lo sforzo per esserlo è il vero contributo che ognuno può dare per una società migliore; non ci si può lavare la coscienza travestendosi da giustizieri se in casa propria si bistratta chi si dovrebbe amare.
Non è poco. E il tutto gran ben recitato e senza moralismi.

Purtroppo un paio di scene di cruda violenza e altre di nudo gratuito dovrebbero precluderne la visione ai minori.

Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo




Un film di Steven Spielberg. Con Harrison Ford, Karen Allen, Cate Blanchett.
Genere
Avventura. Durata: 125 minuti. - Produzione USA 2008

(Brani di una recensione tratta da Mymovies.it)


Indiana Jones (per gli amici Indy) è tornato. Diciannove anni dopo Indiana Jones e l'ultima crociata l'eroe con frusta e Fedora creato da Lucas e Spielberg ricomincia la sua attività di archeologo in corsa.Gli anni sono passati per lui come per gli spettatori e quindi lo ritroviamo nel 1957 nel bel mezzo di un deserto del Sudovest degli Usa mentre la Guerra Fredda domina la scena politica con il terrore del conflitto nucleare e al cinema fanno la loro comparsa gli 'esseri venuti dallo spazio'.
(…)
Si nutrivano molte attese e al contempo molti timori per questo quarto episodio della saga troppe volte annunciato e troppe volte rinviato. L'avanzare dell'età del protagonista Harrison Ford non favoriva lieti auspici anche perché l'ironia sugli anni che aumentano si era già spesa con il personaggio del padre di Indy interpretato da Sean Connery nel film del 1989.
(…)I dubbi si possono considerare fugati. Chi non amava quello che considerava il versante adolescenziale e 'da luna park' di Spielberg continuerà a guardare con il sopracciglio sollevato le imprese dell'archeologo più famoso del cinema. Gli altri troveranno intatto lo spirito del personaggio e dei caratteri che lo accompagnano, semmai con il surplus di azioni e di eventi spettacolari che la tecnologia digitale oggi consente.

Die Hard - Vivere o morire

Regia di Len Wiseman. Con Bruce Willis, Justin Long, Timothy Olyphant, Cliff Curtis. Genere Azione, colore 130 minuti. - Produzione USA, Gran Bretagna 2007. –
Nulla di meglio riesco a dire oltre questa recensione di mymovies.it:

Quando un gruppo di cyber-terroristi stacca la spina degli U.S.A., gettando l'intero paese nel panico, le autorità federali e l'esercito brancolano letteralmente nel buio. Il veterano John McClane, ancora una volta nel posto sbagliato al momento sbagliato, si troverà così a dover affrontare una minaccia globale da parte dei propri storici nemici giurati: terroristi e tecnologia.

L'agente di polizia più coriaceo in circolazione, avvalendosi in questa occasione dell'aiuto di un giovane pirata informatico, può aver perso il pelo ma non il vizio di prendere di petto le situazioni, e conosce sempre e solo un modo di raddrizzare le cose: di prepotenza. Nell'era dei sequel anacronistici, quella per intenderci in cui Rocky Balboa delude e Rambo 4 è sulla buona strada, la notizia è che Die Hard - Vivere o Morire soddisfa le aspettative. Bruce Willis torna a impersonare l'eroe che gli ha regalato la notorietà, John McClane, e lo fa da maestro, fondendosi completamente con il personaggio in un contesto attento e coerentemente sbruffone: niente più trappole di cristallo o aeroporti, sulla scia di Die Hard 3 gli spazi si aprono definitivamente per regalare al personaggio una libertà di movimento tale da renderlo completo.
Lasciando da parte ovvie quanto tediose letture relative ai tempi che corrono e varie interpretazioni più o meno interessanti, è sicuramente più pertinente sottolineare che sotto la regia dell'aitante Len Wiseman l'azione fa ancora una volta la voce grossa, e lo fa in modo spavaldo. Prendendosi libertà che corrono il rischio di ridimensionare le imprese passate del protagonista, si danza sul filo dell'eccesso per quanto riguarda la verosimiglianza di alcune sequenze e di conseguenza dell'intera vicenda, ma a conti fatti stiamo parlando di John McClane, l'ultimo vero cowboy: non resta quindi che andare al cinema, perché di questo si parla, e godersi lo spettacolo. In definitiva, per rispondere ai fanatici del paragone, seppur non in grado di coinvolgere quanto i capitoli precedenti, né di bissarne l'impatto, il quarto episodio della saga è tosto al punto da giustificare appieno la propria esistenza.

I diari della motocicletta


Regia: Walter Salles. Con Gael García Bernal, Mercedes Morán, Jean Pierre Noher, Mia Maestro, Rodrigo De la Serna. Genere Avventura. Durata: 126 minuti. - Produzione Argentina, Brasile, Cile, Perù, USA (2004).

E’ la vera storia, basata sugli appunti di un viaggio che due ragazzi, laureando in medicina uno, l’altro giovane biochimico, il 4 gennaio del 1952 partendo da Buenos Aires decidono di intraprendere. Con tenda, sacco a pelo, una vecchia motocicletta Norton 500 del ’39 ed uno spirito d’avventura da fare invidia ai più audaci teen-ager dei giorni nostri, i due decidono di intraprendere il loro viaggio senza una meta se non quella di esplorare tutto il continente Sudamericano che sino ad allora avevano conosciuto solo attraverso i libri. I due grandi amici si chiamavano Ernesto Guevara de la Serna ed Alberto Granado.

Il viaggio, che si sviluppa attraverso affascinanti paesaggi, ritrae divertenti aneddoti e significativi incontri che segneranno la vita del futuro, ma ancora inconsapevole, Che Guevara.

Non si spiega, direbbe il Conrad de La linea d’ombra, come si concatenino quegli eventi che portano alcuni uomini a vedere che in un certo momento è una ed una sola la cosa da fare. E’ un percorso di cui non si acquista consapevolezza se non alla fine. Nel frattempo si è come portati, sballottolati, come una barchetta dalle onde, fino al momento in cui, senza essere ancora giunti, anzi essendo appena partiti, in fondo si vede, si crede, che si sta seguendo un disegno più ampio.

Durante il viaggio è avvenuto qualcosa che mi ha cambiato profondamente. Qualcosa a cui dovrò pensare molto. Io non sono più io – scriverà l’ancora puro e sincero Ernesto al termine di quell’epopea durata 6 mesi. Per lo meno non si tratta dello stesso io interiore. Nel mondo c’è molta ingiustizia. Grande sensibilità mista all’incapacità di comprendere che non è la violenza che cancella l’ingiustizia. Ma questa è la storia successiva del Che.
Bravi Robert Redford, produttore esecutivo, e Gianni Minà, supervisore artistico. Bella la musica. Film da gustare con lo stato d’animo adatto da una parte ed un bicchiere di buon vino rosso dall’altra.

9 ago 2008

M. BENASAYAG - G. SCHMIT, L’epoca delle passioni tristi



Feltrinelli, 2004.
Euro 15,00; pp.129*.

Dopo aver tracciato un panorama delle cause del disagio giovanile nei primi due capitoli, gli autori entrano nel merito del lavoro proposto ed enunciano la loro tesi. Questa si potrebbe riassumere nei seguenti termini: viviamo in un tempo pervaso da un senso di impotenza e incertezza che ci spinge a rinchiuderci in noi stessi, a vivere il mondo come minaccia, alla quale bisogna rispondere “armando” i giovani.

Il termine “passioni tristi” è di B. Spinoza. I problemi dei giovani sono comunque il segno visibile della crisi della cultura moderna fondata sulla promessa del futuro come redenzione laica. “La nostra epoca scopre le falle del progetto della modernità (rendere l’uomo capace di cambiare tutto secondo il suo volere) e resta paralizzata di fronte alla perdita dell’onnipotenza” (p. 127). Pertanto adesso, affermano Benasayag e Schmit, “gli adulti temono davvero l’avvenire e quindi cercano di formare i loro figli in modo che siano “armati” nei suoi confronti”(p. 43).

Così la nostra società diventa sempre più dura: ogni sapere deve essere “utile”, ogni insegnamento deve “servire a qualcosa”, non ci si può permettere il lusso di fare o imparare a fare cose che non servono. Allora gli sforzi di tutti, insegnanti, genitori, allievi, sono protesi “alla sola garanzia di sopravvivenza in questo mondo pieno di pericoli e di insicurezza, caratterizzato dalla lotta economica di tutti contro tutti” (45). Nella logica di questa selezione “naturale”, un infermiere è uno che “non era in grado di fare il medico”, perché ha perso la gara per arrivare in cima.

In questa logica, degna come giustamente fanno notare i due studiosi, più di un allevamento industriale che di una società civile, gli inni alla “differenza” e alla “diversità”, rimarranno dichiarazioni vane e illusorie, alle quali, evidentemente, non crederà nessuno finché non verrà garantito il rispetto della diversità dei percorsi individuali. E’ questo lo schema di riferimento del ragazzo che, ad un certo punto, aggredisce la sua insegnante. Per ulteriori chiarificazioni in merito riascoltare l’album dei Pink Floyd The Wall (1979) con testi a fianco.

I nostri autori non si limitano semplicemente ad un’analisi tout court - che comunque è valida e non scontata, ricca di spunti già di per sé. Per uscire da questo vicolo cieco, sostengono, si devono mettere in opera vari accorgimenti che sono possibili ed a portata di mano. In definitiva si tratta di riscoprire: la gioia del fare disinteressato, la gioia dell’utilità dell’inutile, il piacere del coltivare i propri talenti senza fini immediati. Ciò avviene in campo psichiatrico creando quella clinica del legame che va in controcorrente rispetto alle spinte dell’individualismo imperante anche in campo pedagogico-educativo. Invece, a livello meno specialistico, questa proposta porterebbe alla riscoperta dell’altro, alla gioia per il rispetto dell’altro (e non solo al pragmatico e politically correct ‘rispetto dell’altro’ che sa tanto di indifferenza, che è l’anticamera della violenza). Questa è la strada che condurrebbe giovani e società ad inquadrare l’importanza della gratuità e del dono come dimensione unica di autorealizzazione e pertanto, in definitiva, l’importanza del servizio come fine e della virtù come strumento per realizzarlo.


* F. Romano, in Fogli, n. 322 (luglio 2004), pp. 37-38.