29 ago 2008

Italiani, bocciati in Inglese

Dal sito on line del Corriere della Sera 29.8.2008

Sei su dieci non sono in grado di sostenere una conversazione E il 30% degli studenti ha un debito in questa materia

Sudori freddi, crisi di panico, balbettii inconsulti. Sostenere una conversazione in una lingua straniera è ancora una missione impossibile per sei italiani su dieci. Un dato sconfortante in un mondo ormai globalizzato che ci pone al terzultimo posto tra i Paesi dell’Unione Europea. Dietro di noi, secondo l’ultima ricerca condotta da Eurobarometro, ci sono solo irlandesi e britannici. E la situazione non migliora con il passar del tempo. Anzi. Se si confrontano i dati del 2001 con quelli del 2006 si scopre che gli italiani in grado di sostenere una conversazione in una lingua straniera sono passati dal 46% al 41%, a fronte di una media Ue del 50%, che sale a oltre il 90% per molte nazioni del Nordeuropa. Anche l’indagine condotta dal Censis per il progetto Let it Fly («Learning education and training in the foreign languages in Italy») indica che gli italiani le lingue le studiano (il 66,2%) ma non le parlano. Il 50,1%, infatti, confessa di averne una conoscenza solo «scolastica», il 23,9% la definisce «buona» e solo il 7,1% «molto buona». «Il quadro è veramente triste — dice Giuseppe Roma, direttore generale del Censis —perché conoscere l’inglese a livello scolastico significa non poterlo parlare. Purtroppo in Italia le lingue non le sappiamo insegnare, abbiamo una scuola tutta incentrata sui contenuti. Invece bisognerebbe cercare di trasmettere un metodo».

Se a questo si aggiunge lo scivolone del Ministero della Pubblica istruzione che all’ultima maturità ha presentato una traccia per la prova di inglese piena di errori da matita blu, il dubbio che la scarsa conoscenza delle lingue in Italia non sia dovuta alla pigrizia dei suoi cittadini diventa quasi una certezza. Qualcosa non funziona nel percorso didattico. «C’è scarsa connessione tra i vari cicli della scuola — spiega Ruggero Druetta, ricercatore all’Università di Torino nella facoltà di Economia —. La mancanza di continuità e la disomogeneità portano a ricominciare sempre da zero». Il risultato è che 13 anni di studi, dalla scuola primaria a quella superiore, non permettono di padroneggiare una lingua. Lo confermano gli ultimi dati forniti dal Ministero guidato da Mariastella Gelmini: dopo la matematica, l’inglese è la nostra seconda bestia nera. Nel 2008 sono stati il 30,6% gli alunni che hanno chiuso l’anno con un debito in questa materia. A mettere i puntini sulle «i», lo scorso marzo, è stata la Conferenza dei Presidi delle Facoltà di Lingue e letterature straniere che ha parlato di una vera e propria emergenza: «In Italia si ritiene — si legge in un comunicato — che la competenza comunicativa internazionale si possa esaurire con una rudimentale o mediocre conoscenza di un inglese basilare per di più sovente lontano da scorrevolezza e pronuncia accettabili».

Il nostro Paese, tra l’altro, ha largamente disatteso le indicazioni della Comunità europea che, dalla Convenzione di Lisbona del 1997, chiede agli Stati membri di promuovere il plurilinguismo, ovvero l’insegnamento di almeno due lingue comunitarie oltre quella madre. Noi, invece, puntiamo (e male) solo sull’inglese tanto che, nel 2005, l’allora ministro della Pubblica istruzione Letizia Moratti ha stabilito che tutta la quota oraria destinata all’insegnamento delle lingue straniere nella scuola secondaria potesse essere dedicata interamente alla lingua di Shakespeare.

«In realtà—spiega Silvia Diegoli dell’associazione per l’insegnamento della lingua francese (Anilf)—dalla primaria fino alla superiore, se lei scorre qualsiasi indirizzo, gli studenti studiano una e una sola lingua straniera. Non ci si rende conto che questa è una carta che gioca a sfavore dei nostri ragazzi rispetto a quelli degli altri Paesi». I problemi cominciano sin dalle elementari. «Nelle scuole primarie — dice ancora Diegoli — l’insegnamento avviene in modo estemporaneo e lacunoso. Prima c’erano i maestri specializzati che facevano un corso abilitante, ora tanti si sono messi a insegnare la lingua pur avendo competenze approssimative ».

La sessualità secondo Giovanni Paolo II (Y. Semen, 2005)

Dottore in Filosofia, sposato, padre di sette figli, Y. Semen è direttore dell’Istituto europeo di studi antropologici Philanthropos di Friburgo, in Svizzera, e docente alla Libera Facoltà di Filosofia (IPC) di Parigi. Il suo testo, scorrevole ed accessibile a tutti, è una lucida sintesi, che nasce da una penetrante analisi, della lunga catechesi di Giovanni Paolo II sull’amore umano nel piano divino.

La teologia del corpo fu presentata dal grande Papa nelle udienze del mercoledì, dal 1979 al 1984, durante i primi anni del suo pontificato. L’autore ne narra la genesi, con riferimenti precisi agli inizi del ministero di Karol Wojtyla tra fidanzati e giovani sposi, cercando di evidenziare la portata fortemente innovativa di questo insegnamento in seno alla dottrina morale cattolica. Quest’ultima ne esce infatti completamente rinnovata e pronta ad affrontare le delicate sfide dei nostri giorni: “Sessualità e santità… Con Giovanni Paolo II, quel che appena si sarebbe osato pensare diventa un’evidenza: questa due dimensioni della vita umana e cristiana sono definitivamente associate. La sessualità è di essenza divina: non è un residuo della nostra animalità. Forse sarà quest’affermazione che fra poco diventerà la “rivoluzione wojtyliana”, una rivoluzione che sarà per la sessualità ciò che la rivoluzione copernicana fu per l’astronomia: un rovesciamento assoluto di prospettiva” (p. 199).


Dopo aver delineato la tradizionale teologia del matrimonio, per come veniva impostata già ai tempi in cui Karol Wojtyla era un giovane attore, Semen espone i limiti che si incontravano in campo pastorale nel porgere la dottrina di sempre in un modo che però, con il trascorrere del tempo, rischiava di essere sempre meno adeguato (cap I: Giovanni Paolo II: un inedito approccio alla sessualità, pp. 19-64). In questo contesto nasce e si sviluppa l’idea del giovane sacerdote, poi porporato polacco, di ripresentare in modo nuovo ed attraente la dottrina sulla sessualità umana.


Nel secondo capitolo Semen entra nel vivo della questione della sessualità cominciando con alcune considerazioni sul nostro atteggiamento riguardo la “questione” del corpo: “questione scabrosa – scrive -, dato che inevitabilmente ci fa riandare alla percezione che abbiamo del male: la spaccatura che avvertiamo in noi far le chiamate dello spirito e le pesantezze del corpo ci appare infatti come un’anomalia che non dovrebbe esistere, come una contraddizione, un male. E abbiamo il sentimento, confuso ma profondamente ancorato in noi, che la responsabilità di quest’anormale situazione vada attribuita al nostro corpo. E’ l’esperienza umana di tutti. In questa sorta di dissociazione, di spaccatura fra spirito e carne, il corpo ci appare come qualcosa di imperfetto, d’impuro, magari perfino un “errore” da cui dovremmo liberarci. (…) Insomma, molto spesso ci accade di mettere sotto accusa il corpo: il male della nostra condizione umana viene dal nostro corpo” (p. 65-66).


A questo punto il filosofo francese non si ferma ad una semplice constatazione ma, seguendo il pensiero di Giovanni Paolo II, ci suggerisce di progredire in questa analisi chiedendoci “Perché abbiamo un corpo, e perché a noi pare che questo corpo si ribelli allo spirito?” (ibid.). Infatti, afferma poco dopo, la teologia del corpo di Giovanni Paolo II “è una pedagogia che vuol farci capire il vero senso del nostro corpo”. Sul filo di questa considerazione, arricchita di profondi riferimenti ai brani dell’Antico e del Nuovo Testamento utilizzati nelle catechesi del Pontefice, l’Autore imbastisce la sua interessante e convincente trattazione riguardo il piano di Dio sulla sessualità umana (pp. 65-102).C’è da dire che lungo il suo discorso Semen fa anche importanti ed attuali riferimenti all’humus culturale di cui si nutre il modo contemporaneo di concepire la sessualità. Infatti, ci dice, quando scopriamo il sesso come essenziale componente della persona e non come un mero attributo accidentale, troviamo che “gli odierni partigiani dell’ideologia del “genere” si oppongono in modo radicale a questo modo di vedere, e fanno mostra di grande attivismo per far prevalere la loro posizione in tutti i grandi organismi (lo fecero in particolare alla conferenza del Cairo del 1994 e di Pechino del 1995), ONU compresa. Secondo il loro modo di vedere, la differenza sessuale e i rispettivi “ruoli” dell’uomo e della donna non provengono dalla natura, ma sono un prodotto delle culture, e prodotto ancora in continua evoluzione. (…) E’ un modo di vedere completamente diverso da quello che ci insegna la Genesi: qui la differenza sessuale è costitutiva della persona e la definisce in maniera essenziale. Siamo uomo o donna in tutte le dimensioni della nostra persona, perché altrimenti non potremmo essere dono. Uomo e donna, siamo della medesima umanità, ma la differenza sessuale ci identifica fin nella radice del nostro essere e ci costituisce come persona, dandoci la complementarietà necessaria per il dono di noi stessi” (pp. 87-88).


I successivi tre capitoli sono dedicati rispettivamente a: Il peccato, il desiderio e la concupiscenza (pp. 103-138), Il matrimonio, la Redenzione e la Risurrezione (pp. 139-168), ed infine La sessualità e la santità (pp. 169-198). In essi Semen analizza, nei discorsi di Giovanni Paolo II, tutti i fattori che influiscono sul significato della sessualità come dobbiamo intenderlo in pienezza. “Il peccato delle origini – dice, ad esempio – è un avvenimento fondativo, e di capitale importanza, che chiaramente delinea le frontiere tra un «prima» - il prima delle origini, della «preistoria teologica dell’uomo» - e un «dopo», il dopo dell’uomo storico, irrimediabilmente segnato dalle conseguenze di quel peccato. (…) «L’esperienza del corpo quel possiamo desumere dal testo arcaico di Genesi 2, 23, e più ancora di Genesi 2, 25, indica un grado di “spiritualizzazione” dell’uomo diverso da quello di cui parla lo stesso testo dopo il peccato originale (Genesi 3) e che noi conosciamo dall’esperienza dell’uomo “storico”. E’ una diversa misura di “spiritualizzazione”, che comporta un'altra composizione delle forze dell’uomo stesso, quasi un altro rapporto corpo-anima, altre proporzioni interne tra la sensitività, la spiritualità, l’affettività, cioè un altro grado di sensibilità interiore verso i doni dello Spirito Santo (Giovanni Paolo II, Udienza del 13 febbraio 1980, §. 2)».


Lungo queste pagine si delinea una vera e propria vocazione del corpo all’interno della quale ogni essere umano è coinvolto. Profondi e pertinenti in quest’ottica, anche i riferimenti alla vocazione al celibato (pp. 158-167), perfettamente in linea con la teologia del corpo esposta da Giovanni Paolo II: “E la vocazione del corpo resta sempre la medesima qualunque sia lo stato di vita. Può esprimersi nel matrimonio, ma s’incarna e si vive anche nel celibato voluto per il Regno dei cieli, senza che il corpo rinneghi nulla del suo significato coniugale, della sua vocazione allo sposalizio, alle nozze. Insomma, non c’è che una vocazione, cioè la vocazione al matrimonio; perché tutti siamo chiamati alle nozze, qualunque sia il nostro stato di vita. La vocazione al celibato è una forma, una modalità del matrimonio nel senso profondo della parola, perché è una modalità del dono della persona. O perlomeno è così che si deve viverlo – o accettarlo -, volendone realizzare appieno il significato umano e personale” (p. 101).


Un libro, come abbiamo detto, molto attuale, ben scritto e accessibile a tutti, che soprattutto i giovani fidanzati, i genitori di figli adolescenti e i sacerdoti troveranno molto utile per la loro formazione e l’adempimento ottimista e coerente dei compiti cui sono chiamati.


(da F. Romano, pubblicato in Studi Cattolici, n. 555, maggio 2007, pp 410-411)

12 ago 2008

La guerra di Charlie Wilson

Regia: Mike Nichols Sceneggiatura: Aaron Sorkin Anno: 2007
Durata: 97'
Data uscita in Italia: 08 febbraio 2008
Genere: biografico,drammatico

Attori:
Joanne Herring
Julia RobertsGust Avrakotos Philip Seymour HoffmanCharlie Wilson Tom HanksBonnie Amy Adams

Trama. Tratto dal bestseller di George Crile. Charlie Wilson è un deputato del Texas nell'America degli anni Ottanta. Joanne Herring è una delle donne più ricche e potenti d'America, fortemente anticomunista. Chiede l'aiuto di Charlie per assicurare ai Mujahideen afghani armi e denaro nella guerra contro la Russia. Collabora con Charlie l'agente della CIA Gust Avrakotos.

Comment. L’aspetto etico è un po’ confuso. E’ l’altra faccia del cinema americano: quello del deputato americano che reagisce al sopore che ingessa i suoi colleghi, diventa un grande eroe e per questo gli si perdona di essere stato un po’ inciucione e doppiogiochista. Come a dire, dietro ogni sbruffone ci può essere un vero uomo (solo che se andiamo alle percentuali di quante volte questo avvenga… vediamo che la virtù richiede esercizio e una certa costanza nella lotta per essere coerenti: comunque ci sono tanti virtuosi estemporanei, d’accordo).

Tutto sommato però è un’America che fa autocritica e una volta tanto, senza cadere nel nostrano piagnucoliamo-autolesionista, in questo ci imita un po’.
Anche quì brevi scene volgarotte fanno scadere il tono divertente, anche se mai avvincente, del film.

American Gangster

Regia: Ridley Scott Sceneggiatura: Steven Zaillian Anno: 2007. Nazione: Stati Uniti d'America. Durata: 160'. Data uscita in Italia: 18 gennaio 2008. Genere: drammatico

Durante la guerra in Vietnam lo spacciatore Frank Lucas importa eroina negli Stati Uniti dalla Thailandia. Sulle sue tracce si mette il Detective Richie Roberts.

Superba interpretazione di due dei migliori attori del momento. Si rivede il grande Russel Crowe di The Insider e Beautifull Mind ed un Denzel Washington che sta migliorando a vista d’occhio le sue già ottime performance e forse non si era mai visto così in forma. La sceneggiatura regge ed il fatto che sia tratto dalla vera storia di Frank Lucas e che la regia sia di Ridley Scott (Blade Runner, Il Gladiatore, Un’ottima annata, etc.) rende il tutto più intricante.

Valori: si comprende come i cattivi in fondo fanno una vita da cani e lo sono perché il più delle volte hanno avuto grossi problemi; il crimine non paga; essere sempre onesti è difficile ma alla fine lo sforzo per esserlo è il vero contributo che ognuno può dare per una società migliore; non ci si può lavare la coscienza travestendosi da giustizieri se in casa propria si bistratta chi si dovrebbe amare.
Non è poco. E il tutto gran ben recitato e senza moralismi.

Purtroppo un paio di scene di cruda violenza e altre di nudo gratuito dovrebbero precluderne la visione ai minori.

Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo




Un film di Steven Spielberg. Con Harrison Ford, Karen Allen, Cate Blanchett.
Genere
Avventura. Durata: 125 minuti. - Produzione USA 2008

(Brani di una recensione tratta da Mymovies.it)


Indiana Jones (per gli amici Indy) è tornato. Diciannove anni dopo Indiana Jones e l'ultima crociata l'eroe con frusta e Fedora creato da Lucas e Spielberg ricomincia la sua attività di archeologo in corsa.Gli anni sono passati per lui come per gli spettatori e quindi lo ritroviamo nel 1957 nel bel mezzo di un deserto del Sudovest degli Usa mentre la Guerra Fredda domina la scena politica con il terrore del conflitto nucleare e al cinema fanno la loro comparsa gli 'esseri venuti dallo spazio'.
(…)
Si nutrivano molte attese e al contempo molti timori per questo quarto episodio della saga troppe volte annunciato e troppe volte rinviato. L'avanzare dell'età del protagonista Harrison Ford non favoriva lieti auspici anche perché l'ironia sugli anni che aumentano si era già spesa con il personaggio del padre di Indy interpretato da Sean Connery nel film del 1989.
(…)I dubbi si possono considerare fugati. Chi non amava quello che considerava il versante adolescenziale e 'da luna park' di Spielberg continuerà a guardare con il sopracciglio sollevato le imprese dell'archeologo più famoso del cinema. Gli altri troveranno intatto lo spirito del personaggio e dei caratteri che lo accompagnano, semmai con il surplus di azioni e di eventi spettacolari che la tecnologia digitale oggi consente.

Die Hard - Vivere o morire

Regia di Len Wiseman. Con Bruce Willis, Justin Long, Timothy Olyphant, Cliff Curtis. Genere Azione, colore 130 minuti. - Produzione USA, Gran Bretagna 2007. –
Nulla di meglio riesco a dire oltre questa recensione di mymovies.it:

Quando un gruppo di cyber-terroristi stacca la spina degli U.S.A., gettando l'intero paese nel panico, le autorità federali e l'esercito brancolano letteralmente nel buio. Il veterano John McClane, ancora una volta nel posto sbagliato al momento sbagliato, si troverà così a dover affrontare una minaccia globale da parte dei propri storici nemici giurati: terroristi e tecnologia.

L'agente di polizia più coriaceo in circolazione, avvalendosi in questa occasione dell'aiuto di un giovane pirata informatico, può aver perso il pelo ma non il vizio di prendere di petto le situazioni, e conosce sempre e solo un modo di raddrizzare le cose: di prepotenza. Nell'era dei sequel anacronistici, quella per intenderci in cui Rocky Balboa delude e Rambo 4 è sulla buona strada, la notizia è che Die Hard - Vivere o Morire soddisfa le aspettative. Bruce Willis torna a impersonare l'eroe che gli ha regalato la notorietà, John McClane, e lo fa da maestro, fondendosi completamente con il personaggio in un contesto attento e coerentemente sbruffone: niente più trappole di cristallo o aeroporti, sulla scia di Die Hard 3 gli spazi si aprono definitivamente per regalare al personaggio una libertà di movimento tale da renderlo completo.
Lasciando da parte ovvie quanto tediose letture relative ai tempi che corrono e varie interpretazioni più o meno interessanti, è sicuramente più pertinente sottolineare che sotto la regia dell'aitante Len Wiseman l'azione fa ancora una volta la voce grossa, e lo fa in modo spavaldo. Prendendosi libertà che corrono il rischio di ridimensionare le imprese passate del protagonista, si danza sul filo dell'eccesso per quanto riguarda la verosimiglianza di alcune sequenze e di conseguenza dell'intera vicenda, ma a conti fatti stiamo parlando di John McClane, l'ultimo vero cowboy: non resta quindi che andare al cinema, perché di questo si parla, e godersi lo spettacolo. In definitiva, per rispondere ai fanatici del paragone, seppur non in grado di coinvolgere quanto i capitoli precedenti, né di bissarne l'impatto, il quarto episodio della saga è tosto al punto da giustificare appieno la propria esistenza.

I diari della motocicletta


Regia: Walter Salles. Con Gael García Bernal, Mercedes Morán, Jean Pierre Noher, Mia Maestro, Rodrigo De la Serna. Genere Avventura. Durata: 126 minuti. - Produzione Argentina, Brasile, Cile, Perù, USA (2004).

E’ la vera storia, basata sugli appunti di un viaggio che due ragazzi, laureando in medicina uno, l’altro giovane biochimico, il 4 gennaio del 1952 partendo da Buenos Aires decidono di intraprendere. Con tenda, sacco a pelo, una vecchia motocicletta Norton 500 del ’39 ed uno spirito d’avventura da fare invidia ai più audaci teen-ager dei giorni nostri, i due decidono di intraprendere il loro viaggio senza una meta se non quella di esplorare tutto il continente Sudamericano che sino ad allora avevano conosciuto solo attraverso i libri. I due grandi amici si chiamavano Ernesto Guevara de la Serna ed Alberto Granado.

Il viaggio, che si sviluppa attraverso affascinanti paesaggi, ritrae divertenti aneddoti e significativi incontri che segneranno la vita del futuro, ma ancora inconsapevole, Che Guevara.

Non si spiega, direbbe il Conrad de La linea d’ombra, come si concatenino quegli eventi che portano alcuni uomini a vedere che in un certo momento è una ed una sola la cosa da fare. E’ un percorso di cui non si acquista consapevolezza se non alla fine. Nel frattempo si è come portati, sballottolati, come una barchetta dalle onde, fino al momento in cui, senza essere ancora giunti, anzi essendo appena partiti, in fondo si vede, si crede, che si sta seguendo un disegno più ampio.

Durante il viaggio è avvenuto qualcosa che mi ha cambiato profondamente. Qualcosa a cui dovrò pensare molto. Io non sono più io – scriverà l’ancora puro e sincero Ernesto al termine di quell’epopea durata 6 mesi. Per lo meno non si tratta dello stesso io interiore. Nel mondo c’è molta ingiustizia. Grande sensibilità mista all’incapacità di comprendere che non è la violenza che cancella l’ingiustizia. Ma questa è la storia successiva del Che.
Bravi Robert Redford, produttore esecutivo, e Gianni Minà, supervisore artistico. Bella la musica. Film da gustare con lo stato d’animo adatto da una parte ed un bicchiere di buon vino rosso dall’altra.

9 ago 2008

M. BENASAYAG - G. SCHMIT, L’epoca delle passioni tristi



Feltrinelli, 2004.
Euro 15,00; pp.129*.

Dopo aver tracciato un panorama delle cause del disagio giovanile nei primi due capitoli, gli autori entrano nel merito del lavoro proposto ed enunciano la loro tesi. Questa si potrebbe riassumere nei seguenti termini: viviamo in un tempo pervaso da un senso di impotenza e incertezza che ci spinge a rinchiuderci in noi stessi, a vivere il mondo come minaccia, alla quale bisogna rispondere “armando” i giovani.

Il termine “passioni tristi” è di B. Spinoza. I problemi dei giovani sono comunque il segno visibile della crisi della cultura moderna fondata sulla promessa del futuro come redenzione laica. “La nostra epoca scopre le falle del progetto della modernità (rendere l’uomo capace di cambiare tutto secondo il suo volere) e resta paralizzata di fronte alla perdita dell’onnipotenza” (p. 127). Pertanto adesso, affermano Benasayag e Schmit, “gli adulti temono davvero l’avvenire e quindi cercano di formare i loro figli in modo che siano “armati” nei suoi confronti”(p. 43).

Così la nostra società diventa sempre più dura: ogni sapere deve essere “utile”, ogni insegnamento deve “servire a qualcosa”, non ci si può permettere il lusso di fare o imparare a fare cose che non servono. Allora gli sforzi di tutti, insegnanti, genitori, allievi, sono protesi “alla sola garanzia di sopravvivenza in questo mondo pieno di pericoli e di insicurezza, caratterizzato dalla lotta economica di tutti contro tutti” (45). Nella logica di questa selezione “naturale”, un infermiere è uno che “non era in grado di fare il medico”, perché ha perso la gara per arrivare in cima.

In questa logica, degna come giustamente fanno notare i due studiosi, più di un allevamento industriale che di una società civile, gli inni alla “differenza” e alla “diversità”, rimarranno dichiarazioni vane e illusorie, alle quali, evidentemente, non crederà nessuno finché non verrà garantito il rispetto della diversità dei percorsi individuali. E’ questo lo schema di riferimento del ragazzo che, ad un certo punto, aggredisce la sua insegnante. Per ulteriori chiarificazioni in merito riascoltare l’album dei Pink Floyd The Wall (1979) con testi a fianco.

I nostri autori non si limitano semplicemente ad un’analisi tout court - che comunque è valida e non scontata, ricca di spunti già di per sé. Per uscire da questo vicolo cieco, sostengono, si devono mettere in opera vari accorgimenti che sono possibili ed a portata di mano. In definitiva si tratta di riscoprire: la gioia del fare disinteressato, la gioia dell’utilità dell’inutile, il piacere del coltivare i propri talenti senza fini immediati. Ciò avviene in campo psichiatrico creando quella clinica del legame che va in controcorrente rispetto alle spinte dell’individualismo imperante anche in campo pedagogico-educativo. Invece, a livello meno specialistico, questa proposta porterebbe alla riscoperta dell’altro, alla gioia per il rispetto dell’altro (e non solo al pragmatico e politically correct ‘rispetto dell’altro’ che sa tanto di indifferenza, che è l’anticamera della violenza). Questa è la strada che condurrebbe giovani e società ad inquadrare l’importanza della gratuità e del dono come dimensione unica di autorealizzazione e pertanto, in definitiva, l’importanza del servizio come fine e della virtù come strumento per realizzarlo.


* F. Romano, in Fogli, n. 322 (luglio 2004), pp. 37-38.